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I fatti più insignificanti di quella serata ebbero una notevole ripercussione su Luciano, portato per carattere a seguire le prime impressioni. Come tutti gli innamorati inesperti, arrivò tanto presto che non trovò ancora Luisa in salotto. C'era il signor de Bargeton, solo. Luciano aveva già cominciato a imparare le piccole bassezze grazie alle quali l'amante di una donna sposata conquista la felicità, e che fanno comprendere alle donne fino a qual punto possono essere esigenti; ma il giovane non si era ancora mai trovato a quattr'occhi con il signor de Bargeton. Questo gentiluomo era uno di quegli spiriti mediocri che vivono tranquillamente in equilibrio fra la nullità inoffensiva che capisce ancora e l'orgogliosa stupidità che non vuole né prendere né dare nulla. Consapevole dei suoi doveri verso il mondo, al quale cercava di rendersi gradito, aveva adottato come unico linguaggio il sorriso del ballerino. Contento o scontento, egli sorrideva. Sorrideva tanto a una notizia disastrosa quanto all'annuncio di un avvenimento lieto. Questo sorriso rispondeva a tutto, a seconda delle espressioni che gli conferiva il signor de Bargeton. Se era assolutamente necessaria una approvazione diretta, egli rafforzava il suo sorriso con una risata cortese, e si faceva uscire una parola di bocca solo se non poteva proprio farne a meno. Un incontro a quattr'occhi rappresentava l'unica complicazione della sua vita vegetativa: allora era costretto a cercare qualche cosa nell'immensità del suo vuoto interiore. Per lo più se la cavava tornando alle semplici abitudini dell'infanzia: pensava ad alta voce, vi informava sui più piccoli particolari della sua vita; vi comunicava le sue necessità, le piccole sensazioni, che, a lui, sembravano idee. Non parlava né della pioggia né del bel tempo; non si abbandonava ai luoghi comuni della conversazione con i quali se la cavano gli imbecilli, si rivolgeva agli interessi più intimi della vita. «Per accontentare la signora de Bargeton, ho mangiato a pranzo del vitello che a lei piace molto, e ora lo stomaco mi fa soffrire,» diceva. «Lo so, mi capita sempre! chissà perché?» Oppure: «Ora suono per chiedere un bicchiere di acqua zuccherata, ne volete anche voi approfittando dell'occasione?» Oppure: «Domani monterò a cavallo e andrò a trovare mio suocero.» Queste frasette, che non comportavano una discussione, strappavano all'interlocutore un no o un sì, e la conversazione languiva. Il signor de Bargeton implorava allora l'aiuto del suo ospite puntando a ovest il suo naso da vecchio bull-dog asmatico; vi guardava con quei grossi occhi in un modo che voleva dire: Stavate dicendo? Prediligeva i noiosi preoccupati solo di parlare di se stessi e li ascoltava con un'attenzione sincera e garbata che lo rendeva prezioso ai loro occhi, tanto che i chiacchieroni di Angoulême gli riconoscevano una intelligenza nascosta e sostenevano che fosse mal giudicato. Così, quando non avevano più ascoltatori, queste persone venivano a finire i loro racconti o i loro ragionamenti dal nostro gentiluomo, sicuri di ricevere il suo sorriso di approvazione. Poiché il salotto della moglie era sempre pieno di gente, egli vi si trovava, in genere, a suo agio. Si occupava dei particolari più insignificanti: guardava chi entrava, salutava sorridendo e conduceva dalla moglie il nuovo arrivato; stava attento a quelli che se ne andavano e li accompagnava alla porta accogliendo il loro commiato con il suo eterno sorriso. Quando la serata era animata e vedeva che tutti erano occupati, il beato taciturno restava piantato sulle lunghe gambe, come una cicogna sulle zampe, con l'aria di ascoltare una conversazione di politica; oppure studiava le carte di un giocatore senza capirci niente, perché non conosceva alcun gioco; oppure passeggiava avanti e indietro fiutando tabacco e ansimando a causa della digestione. Anaïs era l'aspetto bello della sua vita e gli dava dei godimenti infiniti. Quando lei recitava la parte della padrona di casa, egli si adagiava in una poltrona e l'ammirava, perché lei parlava per lui: inoltre era un piacere per lui cercare lo spirito delle sue frasi, e poiché gli capitava spesso di comprenderle solo molto tempo dopo che erano state proferite, si lasciava andare a dei sorrisi che erano come proiettili a scoppio ritardato. Il suo rispetto per lei rasentava l'adorazione. Una adorazione purchessia non basta a rendere felice la vita? Anaïs, da persona intelligente e generosa qual era, non aveva approfittato della propria superiorità quando aveva compreso che il marito aveva il carattere docile di un bimbo che altro non chiede se non di essere guidato. Ella aveva cura di lui come si ha cura di un mantello: lo teneva pulito, lo spazzolava, lo riponeva, lo custodiva: sentendosi custodito, spazzolato, curato, il signor de Bargeton nutriva per la moglie un affetto canino. È tanto facile dare una felicità che non costa niente. La signora de Bargeton, sapendo che l'unico piacere di suo marito era la buona tavola, gli faceva preparare dei pranzi eccellenti; ne aveva pietà; non si era mai lamentata di lui; e alcuni, non comprendendo un silenzio dettato dalla fierezza, attribuivano al signor de Bargeton delle virtù nascoste. D'altra parte, lei gli aveva imposto una disciplina militare, e l'obbedienza di quest'uomo ai voleri della moglie era passiva. Lei gli diceva: «Fate una visita al signore o alla signora tale», e lui ci andava come un soldato monta di sentinella. Così davanti a lei rimaneva sul presentat-arm e immobile. E ora si parlava di far nominare deputato questo essere silenzioso. Luciano praticava la casa da troppo poco tempo per aver avuto modo di sollevare il velo sotto il quale si nascondeva questo tipo inimmaginabile. Il signor de Bargeton sprofondato nella sua poltrona, che sembrava vedere e comprendere tutto, e dignitosamente ammantato nel suo silenzio, gli sembrava un personaggio straordinariamente autorevole. Invece di vederlo come un paracarro di granito, Luciano fece del gentiluomo una temibile sfinge, a causa della tendenza che spinge gli uomini dotati d'immaginazione a ingrandire tutto, o a dare un'anima a tutte le forme, e ritenne necessario adularlo. «Sono il primo,» disse salutandolo con una deferenza maggiore di quella che veniva accordata di solito al brav'uomo. «È abbastanza naturale,» rispose il signor de Bargeton. Luciano prese questa frase per l'arguzia di un marito geloso, arrossì e si guardò nello specchio cercando di darsi un contegno. «Voi abitate all'Houmeau,» disse il signor de Bargeton, «e le persone che abitano lontano arrivano sempre più presto di quelle che abitano vicino.» «Da che dipenderà?» chiese Luciano assumendo un'aria amabile. «Non lo so,» rispose il signor de Bargeton ripiombando nella sua immobilità. «Non volete saperlo,» riprese Luciano. «Un uomo in grado di fare una osservazione, è anche in grado di trovare la causa.» «Ah!» fece il signor de Bargeton, «le cause ultime! Eh! Eh!...» Luciano si spremette il cervello per rianimare la conversazione che languì. «La signora de Bargeton starà senza dubbio vestendosi,» disse fremendo per la scempiaggine della frase. «Sì, si sta vestendo,» rispose con naturalezza il marito. Luciano alzò gli occhi per guardare il soffitto intonacato fra i due travicelli sporgenti, dipinti di grigio, ma non riuscì a trovare un nuovo argomento di conversazione; in quell'istante, però, si accorse, con un certo sbigottimento, che il piccolo lampadario a gocce di cristallo era privo del velo che di solito lo proteggeva, e che vi erano state infilate delle candele. Le coperture dei mobili erano state tolte e il lampasso cremisi mostrava i suoi fiori sbiaditi. Questi preparativi annunciavano una riunione straordinaria. Il poeta fu assalito dal dubbio di non essere vestito convenientemente, in quanto portava gli stivali. Andò a guardare, preoccupato, un vaso giapponese che ornava una console Luigi XV; poi ebbe paura di non piacere al marito se non lo avesse corteggiato, e decise di scoprire se il brav'uomo avesse un pallino che si potesse assecondare. «Voi lasciate raramente la città, signore?» chiese al signor de Bargeton tornando verso di lui. «Raramente.» Ancora silenzio. Il signor de Bargeton spiava come una gatta sospettosa i più piccoli movimenti di Luciano ché turbava il suo riposo. Ognuno di loro aveva paura dell'altro. «Avrà dei sospetti sulla mia assiduità?» pensò Luciano, «sembra molto ostile nei miei confronti!» In quell'attimo, fortunatamente per Luciano, che sosteneva molto imbarazzato le occhiate inquiete con le quali il signor de Bargeton scrutava il suo andirivieni, il vecchio domestico, che aveva indossato una livrea, annunciò du Châtelet. Il barone entrò perfettamente a suo agio, salutò l'amico Bargeton, e fece a Luciano un piccolo cenno col capo, un modo di salutare che allora usava molto, ma che il poeta trovò di una insolenza fiscale. Sisto du Châtelet portava un paio di pantaloni d'un candore abbagliante, con sottopiedi che li mantenevano a piombo. Aveva scarpe di ottima qualità e calze di filo di Scozia. Sul panciotto bianco spiccava il nastro nero dell'occhialino. Infine la marsina nera aveva un taglio e una foggia impeccabilmente parigini. Era proprio un damerino all'altezza della sua fama; ma l'età gli aveva già regalato una pancetta rotonda molto difficile da contenere entro i limiti dell'eleganza. Si tingeva i capelli e i favoriti, imbiancati dalle sofferenze patite nel famoso viaggio, e ciò gli dava un'aria dura. La carnagione, un tempo molto delicata, aveva assunto il colore ramato di coloro che tornano dalle Indie; ma il portamento, benché reso un po' ridicolo da una certa ostinata pretesa di leggiadria, rivelava ancora in lui l'amabile Segretario di Gabinetto di un'Altezza Imperiale. Du Châtelet prese l'occhialino, guardò i pantaloni di tela di nanchino, gli stivali, il panciotto, l'abito blu di Luciano, fatto ad Angoulême, insomma esaminò da capo a piedi il suo rivale. Poi ripose freddamente l'occhialino nella tasca del panciotto come a voler dire: «Sono soddisfatto.» Schiacciato dalla eleganza del funzionario, Luciano pensò che si sarebbe rifatto quando avesse mostrato ai presenti il volto animato dalla poesia; ciò nondimeno fu assalito da una acuta sofferenza che si aggiungeva al disagio interiore causato dalla supposta ostilità del signor de Bargeton. Sembrava che il barone facesse gravare su Luciano tutto il peso della propria fortuna per umiliare maggiormente la sua miseria. Il signor de Bargeton, che contava di non dover parlare più, fu costernato dal silenzio in cui si rinchiusero i due rivali mentre si esaminavano; tuttavia, quando era alle strette, egli aveva una domanda che teneva in serbo come un'arancia contro la sete; arrivato a quel punto ritenne necessario tirarla fuori dandosi il tono dell'uomo affaccendato. «Ebbene, signore,» disse a du Châtelet, «che c'è di nuovo? che si dice in giro?» «Ma,» rispose malignamente il direttore delle imposte, «di nuovo c'è il signor Chardon. Rivolgetevi a lui. Ci portate qualche bel poema?» domandò pronto il barone aggiustandosi il boccolo sulla tempia che gli sembrava fuori posto. «Per sapere se sia bello, avrei dovuto consultarvi,» rispose Luciano. «Voi avete fatto della poesia prima di me.» «Bah! Alcuni vaudevilles abbastanza piacevoli scritti per fare un favore, delle canzoni di circostanza, delle romanze messe in valore dalla musica, la mia grande epistola a una sorella di Bonaparte (l'ingrato!), non sono titoli sufficienti per passare ai posteri!» In quel momento la signora de Bargeton si mostrò in tutto lo splendore di una toilette ricercata. Portava un turbante ornato da un fermaglio orientale. Una sciarpa trasparente, sotto la quale brillava una collana di cammei, le avvolgeva con garbo il collo. L'abito di mussola dipinta, con le maniche corte, le consentiva di sfoggiare sulle belle braccia bianche molti braccialetti. Quell'abbigliamento teatrale incantò Luciano. Il signor du Châtelet rivolse galantemente a quella regina dei complimenti nauseanti che la fecero sorridere di piacere, tanto fu felice di essere lodata in presenza di Luciano. Scambiò solo uno sguardo con il suo caro poeta e rispose al direttore delle imposte mortificandolo con una cortesia che lo escludeva dalla sua intimità. In quel momento cominciarono ad arrivare gli invitati. Per primi si presentarono il vescovo e il suo gran vicario, due figure degne e solenni, che formavano però un contrasto violento: monsignore era alto e magro, il suo accolito era piccolo e grasso. Entrambi avevano degli occhi brillanti, ma il vescovo era pallido mentre il volto del suo gran vicario era colorito da una salute eccellente. L'uno e l'altro gestivano con parsimonia. Tutti e due apparivano prudenti, la loro riservatezza e il loro silenzio mettevano soggezione; erano reputati persone molto intelligenti. I due prelati furono seguiti dalla signora de Chandour e dal marito, personaggi straordinari, che potrebbero apparire fantastici a chi non conoscesse la provincia. Il marito d'Amelia, la donna che si piccava di essere l'antagonista della signora de Bargeton, il signor de Chandour, che tutti chiamavano Stanislao, era un ex bel giovane, ancora snello a quarantacinque anni, con una faccia che sembrava un crivello. La sua cravatta era sempre annodata in modo da presentare due punte minacciose, una all'altezza dell'orecchia destra, l'altra rivolta verso il nastro rosso della decorazione. Le falde dell'abito erano decisamente rovesciate. Il panciotto, molto scollato, lasciava vedere una camicia gonfia, chiusa da spille eccessivamente vistose. Insomma, tutto il suo abbigliamento era così esagerato da farlo apparire una caricatura agli estranei che, vedendolo, non potevano trattenersi dal sorridere. Stanislao non faceva che rimirarsi dall'alto in basso, tutto soddisfatto, verificando il numero dei bottoni del panciotto, seguendo le linee sinuose disegnate dai pantaloni attillati, carezzando le gambe con uno sguardo che si fermava, amorevole, sulle punte degli stivali. Quando aveva finito di contemplarsi così, cercava con gli occhi uno specchio, controllava se i capelli si mantenevano in ordine; interrogava le donne con uno sguardo radioso infilando un dito nel taschino del panciotto, tirandosi un po' indietro e mettendosi di tre quarti, vezzi da galletto che avevano buon esito nella società aristocratica della quale egli era il bello. Per lo più, i suoi discorsi erano infarciti di frasi licenziose come si usava nel diciottesimo secolo. Questo detestabile genere di conversazione aveva abbastanza successo con le donne, le faceva ridere. Il signor du Châtelet cominciava a preoccuparlo. Infatti, incuriosite dal sussiego del bellimbusto delle imposte indirette, pungolate da quella sua aria, propria di chi è convinto che nulla al mondo potrà riscuoterlo da un indolente languore, e piccate per i suoi modi di sultano annoiato, le donne lo ricercavano ancor più di quando era arrivato, dal momento in cui la signora de Bargeton si era invaghita del Byron di Angoulême. Amelia era una piccola commediante maldestra, grassa, bianca, coi capelli neri, esagerata in tutto, che parlava ad alta voce, e si pavoneggiava con la testa carica di piume, d'estate, e di fiori, in inverno; bella parlatrice, non poteva però terminare il periodo senza accompagnarlo con i sibili di un'asma inconfessata. Il signor de Saintot, chiamato Astolfo, presidente della Società di agricoltura, un uomo grande e grosso, dal colorito acceso, apparve rimorchiato dalla moglie, un tipo molto simile a una felce secca, che chiamavano Lili, abbreviazione di Elisa. Questo nome, che faceva pensare a qualcosa d'infantile, stonava con il carattere e le maniere della signora de Saintot, donna solenne, estremamente pia, giocatrice pignola e litigiosa. Astolfo passava per un erudito di prim'ordine. Ignorante come un ciuco, aveva tuttavia compilato le voci Zucchero e Acquavite per un dizionario di agricoltura, attingendo a piene mani da tutti gli articoli di giornali e da tutte le vecchie opere in cui si parlava di questi due prodotti. Tutto il dipartimento lo credeva impegnato a lavorare a un Trattato sull'agricoltura moderna. Benché si chiudesse tutte le mattine nello studio, in dodici anni non aveva ancora scritto due pagine. Se qualcuno andava a trovarlo, si faceva sorprendere mentre scribacchiava delle carte, o mentre cercava qualcosa o affilava la penna; in realtà, occupava in stupidaggini tutto il tempo in cui rimaneva chiuso nello studio: leggeva il giornale da cima a fondo, intagliava turaccioli col temperino, tracciava bizzarri ghirigori sul sottomano, sfogliava Cicerone per cogliere qua e là una frase o un brano il cui senso potesse applicarsi agli avvenimenti del giorno; la sera, poi, faceva in modo di condurre la conversazione su un argomento che gli permettesse di dire: «In Cicerone c'è una pagina che sembra proprio sia stata scritta per ciò che accade ai nostri tempi.» Recitava allora il brano fra lo stupore dei presenti, che dicevano fra loro: «Veramente Astolfo è un pozzo di scienza.» L'episodio faceva il giro della città e tutti si rafforzavano nelle loro errate convinzioni sul conto del signor de Saintot. Dopo questa coppia, venne il signor de Bartas, chiamato Adriano, quello che cantava con voce di baritono e che aveva enormi presunzioni in campo musicale. L'amor proprio gli aveva fatto alzare le tende sul solfeggio: aveva cominciato ammirandosi da solo quando cantava, poi si era messo a parlare di musica, e aveva finito per occuparsene in modo esclusivo. L'arte musicale era diventata per lui una monomania; si animava solo quando parlava di musica; soffriva per tutta una serata fino a che qualcuno non lo pregava di cantare. Solo dopo che aveva muggito una delle sue arie, cominciava a vivere: si pavoneggiava, si alzava sui tacchi quando lo complimentavano, faceva il modesto, epperò non mancava di passare da un gruppo all'altro per raccogliere gli elogi; poi, quando tutto era stato detto, tornava alla musica intavolando una discussione sulle difficoltà del brano cantato o intessendo le lodi del compositore. Con il signor de Bartas c'era il signor Alessandro de Brebian, l'eroe del nero di seppia; il disegnatore che infestava le stanze degli amici con assurdi acquerelli e che sciupava tutti gli album del dipartimento. Ciascuno di loro dava il braccio alla moglie dell'altro. Secondo la cronaca scandalistica, questo scambio di consorti era completo. Le due donne, Lolotte (signora Carlotta de Brebian) e Fifine (signora Giuseppina de Bartas), tutte prese dai fichus, dalle guarnizioni, dagli accoppiamenti di colori eterogenei, erano divorate dal desiderio di sembrare parigine, e trascuravano la casa dove tutto andava a rotoli. Se le due donne, infagottate come bambole negli abiti fatti in economia, esibivano sulle loro persone un assortimento di colori eccessivamente bizzarri, i mariti, nella loro qualità di artisti, si permettevano una certa trascuratezza provinciale che li rendeva curiosi a vedersi. Le marsine un po' fruste li facevano somigliare a quelle comparse che, nei teatri di provincia, raffigurano l'alta società invitata a un matrimonio. Fra i tipi che sbarcarono nel salotto, uno dei più originali fu il signor conte de Senonches, chiamato aristocraticamente Giacomo, grande cacciatore, altero, asciutto, col viso abbronzato, amabile come un cinghiale, diffidente come un veneziano, geloso come un moro, e molto legato con il signor du Hautoy, altrimenti detto Francesco, amico di casa. La signora de Senonches (Zefirina) era alta e bella, ma già affetta dalla couperose provocata da un certo riscaldo al fegato che la faceva passare per una donna esigente. Il corpo snello, delicato, le permetteva di assumere atteggiamenti languidi, evidentemente affettati, ma che rivelavano la passione e i capricci sempre soddisfatti di una persona amata. Francesco era un uomo notevole, che aveva abbandonato il posto di console a Valencia e le sue speranze nella carriera diplomatica per andare a vivere a Angoulême a canto a Zefirina, detta anche Zizine. L'ex console curava l'andamento della casa, educava i bambini, insegnava loro le lingue straniere e amministrava la fortuna del signore e della signora de Senonches con assoluta dedizione. Per molto tempo l'Angoulême nobile, l'Angoulême amministrativa e l'Angoulême borghese avevano trovato a ridire sulla perfetta unità di questo triangolo; ma a lungo andare il mistero di quella trinità coniugale sembrò così raro e bello, che il signor du Hautoy sarebbe stato giudicato straordinariamente immorale se avesse fatto intendere di volersi sposare. D'altra parte, si cominciavano a fiutare misteri inquietanti nell'eccessivo attaccamento della signora de Senonches per una figlioccia, chiamata signorina de la Haye, che fungeva da damigella di compagnia, e, malgrado certe apparenti difficoltà cronologiche, si riscontravano rassomiglianze impressionanti tra Francesca de la Haye e Francesco du Hautoy. Quando Giacomo cacciava nei dintorni, tutti gli chiedevano notizie di Francesco, ed egli si dilungava sulle piccole indisposizioni del suo intendente volontario, occupandosi di lui prima ancora che della moglie. Questa cecità era una cosa tanto strana in un uomo geloso, che i suoi migliori amici si divertivano a divulgarla, e ne mettevano a parte coloro che non conoscevano il mistero per divertirli. Il signor du Hautoy era un dandy raffinato, ma in lui la cura della persona aveva finito per sconfinare nelle leziosaggini e nelle puerilità. Si preoccupava della sua tosse, del suo sonno, della sua digestione e della sua alimentazione. Zefirina aveva ridotto il suo factotum a fare la parte dell'uomo dalla salute delicata: lo teneva nella bambagia, lo imbacuccava, lo imbottiva di medicine; lo impinzava di leccornie come il cagnolino di una marchesa; gli ordinava o gli proibiva questo o quell'alimento; gli ricamava panciotti cravatte e fazzoletti; infine l'aveva abituato a portare delle cosine graziose che lo trasformavano in una specie di idolo giapponese. D'altra parte il loro accordo era perfetto: Zizine guardava Francesco ad ogni momento, e Francesco sembrava attingere le sue idee dagli occhi di Zizine. Criticavano, sorridevano insieme, e pareva si consultassero anche per dire semplicemente buon giorno. Il più ricco proprietario dei dintorni, l'uomo invidiato da tutti, il signor marchese de Pimentel e sua moglie (fra tutti e due mettevano insieme quarantamila franchi di rendita e passavano l'inverno a Parigi) vennero dalla campagna in calesse con i loro vicini, il signor barone e la signora baronessa de Rastignac, accompagnati dalla zia della baronessa e dalle figlie, due fanciulle incantevoli, ben educate, povere, ma vestite con quella semplicità che mette in risalto le doti naturali. Costoro, che senza dubbio erano l'élite della compagnia, furono ricevuti con un silenzio glaciale e con una deferenza piena di invidia, soprattutto quando i presenti videro l'accoglienza particolare riservata ai nuovi venuti dalla signora de Bargeton. Queste due famiglie appartenevano a quel numero ristretto di persone che, in provincia, si tengono al di sopra dei pettegolezzi, non fanno lega con nessuno, vivono in silenzioso ritiro e conservano una maestosa dignità. Il signor de Pimentel e il signor de Rastignac venivano chiamati con i loro titoli; le loro mogli e le loro figlie non avevano alcuna familiarità con la combriccola altolocata di Angoulême; erano troppo vicini alla nobiltà di corte per compromettersi con le meschinità della provincia. Il prefetto e il generale arrivarono per ultimi, accompagnati dal gentiluomo di campagna che, al mattino, aveva portato a Davide la sua memoria sui bachi da seta. Doveva essere senza dubbio un sindaco ricco proprietario terriero; ma il suo aspetto e il suo abbigliamento dicevano chiaramente che non era avvezzo a frequentare la società: era impacciato dagli abiti, non sapeva dove tenere le mani, parlando girava intorno al suo interlocutore, si alzava e si rimetteva a sedere per rispondere quando gli veniva rivolta la parola, sembrava pronto a prestare qualche servigio domestico; era di volta in volta ossequioso, inquieto, grave, si affrettava a ridere per ogni frase scherzosa, ascoltava in atteggiamento servile, e talora assumeva un'aria sospettosa credendo che qualcuno si burlasse di lui. Più volte nel corso della serata, con l'idea fissa della sua memoria, cercò di parlare di bachi da seta; ma il disgraziato signor de Séverac incappò dapprima nel signor de Bartas, che gli parlò di musica, e poi nel signor de Saintot, che gli citò Cicerone. Verso la metà della serata, il povero sindaco s'intese finalmente con una vedova e con sua figlia, la signora e la signorina du Brossard, che non erano le persone meno interessanti di quella riunione. Basterà dire questo: erano tanto povere quanto nobili. Il loro abbigliamento tradiva quel desiderio di essere all'altezza della situazione che rivela una segreta miseria. La signora du Brossard vantava in modo assai goffo e ad ogni piè sospinto la figliola, una ragazzona di ventisette anni, che aveva fama di essere un'ottima pianista; le attribuiva ufficialmente tutti i gusti degli scapoli disponibili e, nel suo desiderio di sistemare la cara Camilla, in una sola sera aveva sostenuto che Camilla amava la vita errante delle guarnigioni e la vita sedentaria dei proprietari di campagna. Entrambe avevano la dignità offesa, agrodolce, delle persone che tutti provano gran piacere a compiangere, alle quali ci si interessa per egoismo, e che hanno conosciuto il vuoto delle frasi consolatrici con le quali il mondo si compiace di accogliere gli sventurati. Il signor de Séverac aveva cinquantanove anni, era vedovo e senza figli; madre e figlia ascoltarono quindi con devota ammirazione le sue minuziose dissertazioni sulla bachicoltura. «Mia figlia ha sempre amato gli animali,» disse la madre. «Così, dato che la seta prodotta da quelle bestiole interessa le donne, vi chiederò il permesso di venire a Séverac per far vedere a Camilla come la si raccoglie. Camilla è così intelligente che capirà all'istante ciò che le direte. Pensate che una volta ha afferrato immediatamente la ragione inversa del quadrato delle distanze.» Questa frase concluse in gloria la conversazione fra il signor de Séverac e la signora du Brossard, dopo la lettura di Luciano. Alla riunione intervennero anche alcuni frequentatori abituali della casa, nonché due o tre figli di famiglia, timidi, silenziosi, bardati come reliquiari, felici di essere stati invitati a quella cerimonia letteraria; il più ardito di loro parlò a lungo con la signorina de la Haye. Le donne si disposero serie serie in cerchio, mentre gli uomini rimasero in piedi alle loro spalle. Quella assemblea di personaggi bizzarri, dagli abiti eterogenei, dai volti avvizziti, parve imponente a Luciano che sentì il cuore saltargli in gola quando si vide l'oggetto di tutti quegli sguardi. Per quanto ardito fosse, non gli fu facile superare quella prima prova, malgrado gli incoraggiamenti dell'amante, che sfoggiò riverenze e grazie raffinate nell'accogliere i più illustri esponenti di Angoulême. Il malessere che si era impadronito di lui fu aggravato da una circostanza facilmente prevedibile ma che doveva sgomentare un giovane ancora poco esperto delle malizie del mondo. Luciano, tutto occhi e orecchie, si sentiva chiamare signor de Rubempré da Luisa, dal signor de Bargeton, dal vescovo e da qualche altro che desiderava compiacere la padrona di casa, e signor Chardon dalla maggioranza di quel temuto pubblico. Intimidito dalle occhiate interrogative dei curiosi, gli bastava vedere il movimento delle labbra per capire che lo nominavano con il suo nome borghese; intuiva i giudizi che quella gente dava sul suo conto con una franchezza provinciale, talvolta troppo vicina alla scortesia. Questi continui, inattesi colpi di spillo lo fecero sentire ancor meno a suo agio. Attese con impazienza il momento di cominciare la lettura, così da poter prendere un atteggiamento che mettesse fine a quell'intimo supplizio; ma Giacomo stava descrivendo la sua ultima caccia alla signora de Pimentel; Adriano parlava del nuovo astro musicale, Rossini, con la signorina Laura de Rastignac; Astolfo, che aveva imparato a memoria da un giornale la descrizione di un nuovo aratro, ne parlava con il barone. Luciano non sapeva, povero poeta, che nessuna di quelle intelligenze, ad eccezione di quella della signora de Bargeton, era in grado di comprendere la poesia. Tutte quelle persone, incapaci di emozioni, erano accorse, equivocando sulla natura dello spettacolo che le attendeva. Ci sono parole che, come le trombe, i piatti e la grancassa dei saltimbanchi, attirano sempre il pubblico. Le parole bellezza, gloria, poesia, possiedono un fascino che seduce anche gli spiriti più rozzi. Quando tutti furono arrivati, quando le conversazioni cessarono, dopo mille avvertimenti impartiti ai disturbatori dal signor de Bargeton, cui la moglie aveva affidato il compito del mazziere che picchia il bastone sul piancito, Luciano, con l'animo in subbuglio, si avvicinò al tavolo rotondo, accanto alla signora de Bargeton. Annunciò con voce emozionata che, per non ingannare le aspettative di nessuno, avrebbe letto i capolavori, recentemente ritrovati, di un grande poeta sconosciuto. Sebbene le poesie di Andrea de Chénier fossero state pubblicate fin dal 1819, nessuno, ad Angoulême, aveva mai sentito parlare di Andrea de Chénier. Tutti videro in quell'annuncio un espediente escogitato dalla signora de Bargeton per salvaguardare l'amor proprio del poeta e mettere gli ascoltatori a loro agio. Luciano lesse prima il Giovane Malato, che fu accolto da mormorii lusinghieri; poi il Cieco, che quegli spiriti mediocri trovarono un po' lungo. Durante la lettura, Luciano patì quelle pene infernali che possono essere comprese appieno solo da artisti insigni, o da coloro che l'entusiasmo e una elevata intelligenza pongono al loro livello. Per essere interpretata con la voce, e per essere compresa, la poesia esige un'attenzione religiosa. Fra il lettore e chi ascolta si deve creare un legame intimo, senza il quale è impossibile un contatto emotivo. Se questa adesione spirituale viene a mancare il poeta si sente come un angelo che tenti di cantare un inno celeste in mezzo al bailamme dell'inferno. Nella sfera in cui si sviluppano le loro facoltà, gli uomini d'ingegno hanno la vista circolare della lumaca, il fiuto del cane e l'orecchio della talpa: vedono, annusano, sentono tutto intorno a loro. Il musicista e il poeta capiscono se sono ammirati o incompresi con la stessa prontezza con cui una pianta avvizzisce o rifiorisce a seconda che si trovi in un ambiente nemico o amico. Il brusio degli uomini che erano là solo per via delle mogli, e che parlavano dei loro affari, era percepito dalle orecchie di Luciano in virtù delle leggi di quell'acustica speciale; così come avvertiva nelle mascelle semiaperte, i cui denti sembravano volerlo schernire, ripetuti tentativi di bloccare gli sbadigli. Quando, simile alla colomba del diluvio, cercava un angolino sicuro sul quale fermare lo sguardo, incontrava gli occhi spazientiti di quelli che avevano pensato evidentemente di approfittare della riunione per parlare di affari. Ad eccezione di Laura de Rastignac, di due o tre giovanotti e del vescovo, tutti i presenti si annoiavano. In realtà, coloro che comprendono la poesia cercano di far sbocciare nella propria anima ciò che l'autore ha messo allo stato embrionale nei suoi versi; ma quegli ascoltatori gelidi, non solo non bevevano l'anima del poeta, ma non ne ascoltavano nemmeno gli accenti. Luciano fu preso da un profondo scoramento e un sudore freddo gli inzuppò la camicia. Uno sguardo di fuoco di Luisa, verso la quale egli era voltato, gli diede il coraggio di finire; ma il suo cuore di poeta sanguinava da mille ferite. «Lo trovate molto divertente, Fifine?» disse alla sua vicina l'allampanata Lili che si aspettava chissà quali cose straordinarie. «Non chiedete il mio parere, cara, a me si chiudono gli occhi appena sento leggere.» «Spero che Naïs non ci regalerà troppo spesso dei versi alla sera,» disse Francesco. «Quando sento leggere dopo mangiato, l'attenzione cui sono costretto mi rovina la digestione.» «Povero micino,» disse Zefirina a voce bassa, «bevete un bicchiere d'acqua zuccherata.» «Declama benissimo,» disse Alessandro; «ma io preferisco il whist.» A questa battuta alcune giocatrici sostennero che il lettore avesse bisogno di riposo. Con questo pretesto, un paio di coppie si eclissarono nel salottino. Luciano, supplicato da Luisa, dall'incantevole Laura de Rastignac e dal vescovo, ridestò l'attenzione grazie all'estro controrivoluzionario dei Giambi, che molti, trascinati dalla dizione appassionata, applaudirono senza capire. Le persone di questo genere sono influenzate dalle grida, come i palati rozzi sono stimolati dai liquori forti. Mentre venivano serviti i sorbetti, Zefirina mandò Francesco a dare un'occhiata al volume, e comunicò ad Amelia che i versi letti da Luciano erano stampati. «Ma,» rispose Amelia visibilmente soddisfatta, «è molto semplice, il signor de Rubempré lavora da uno stampatore. E,» disse guardando Lolotte, «come se una bella donna si cucisse da sé i vestiti.» «Ha stampato da sé le sue poesie,» dissero le signore. «Perché, allora, si chiama signor de Rubempré?» domandò Giacomo. «Quando lavora con le proprie mani, un nobile deve abbandonare il suo nome.» «In effetti ha abbandonato il suo, che era plebeo,» disse Zizine, «ma per prendere quello della madre che è nobile.» «Dal momento che i suoi versi sono stampati, possiamo leggerceli da soli,» disse Astolfo. Questa stupidità complicò le cose fino a quando Sisto du Châtelet si degnò di dire all'ignorante assemblea che l'annuncio non era stato una accorta precauzione, e che quelle belle poesie erano di un fratello realista del rivoluzionario Giuseppe Maria Chénier. La società di Angoulême, ad eccezione del vescovo, della signora de Rastignac e delle sue due figlie, che erano stati affascinati da quella grande poesia, si ritenne ingannata e si offese per quella soperchieria. Si cominciò a mormorare, ma Luciano non sentì nulla. Staccato da quel mondo odioso, rapito da una melodia interiore, si sforzava di ripeterla e vedeva le persone come attraverso una nebbia. Lesse la cupa elegia sul suicidio, quella alla maniera antica in cui spira una sublime melanconia; poi quella che contiene il verso: I tuoi versi son dolci, e dolce m'è ripeterli. Infine, terminò con il suo soave idillio intitolato Neera. Assorta in deliziose fantasticherie, con una mano fra i boccoli, che aveva scompigliato senza accorgersene, e l'altra abbandonata, con lo sguardo assorto, sola in mezzo al suo salotto, la signora de Bargeton si sentiva, per la prima volta in vita sua, trasportata nella sfera che le si confaceva. Giudicate quanto dovette essere spiacevole il risveglio provocato da Amelia, che si era assunta il compito di esprimerle il pensiero degli altri. «Naïs, noi eravamo venuti per sentire le poesie del signor Chardon, e voi ci date dei versi stampati. Anche se sono molto belli, per amore della nostra città le signore preferirebbero un prodotto locale.» «Non trovate che la lingua francese si presta poco alla poesia?» chiese Astolfo al direttore delle imposte. «Per me la prosa di Cicerone è mille volte più poetica.» «La vera poesia francese è la poesia leggera, la canzone,» rispose du Châtelet. «La canzone prova che la nostra lingua è molto musicale,» disse Adriano. «Mi piacerebbe proprio conoscere i versi che hanno fatto perdere Naïs,» disse Zefirina; «ma a giudicare dal modo in cui ha accolto la domanda di Amelia, sembra che non sia disposta a darcene un saggio.» «Ella ha il dovere, il dovere verso se stessa di farglieli dire,» intervenne Francesco, «perché il genio di quel ragazzo è la sua giustificazione.» «Voi che siete in diplomazia, cercate di convincerla,» disse Amelia al signor du Châtelet. «Niente di più facile,» rispose il barone. L'ex Segretario di Gabinetto, abituato a queste piccole manovre, si avvicinò al vescovo e lo persuase a farsi avanti. Pregata da monsignore, Naïs fu costretta a chiedere a Luciano qualche brano che egli sapesse a memoria. Il rapido successo di questi negoziati fruttò al barone un languido sorriso di Amelia. «Decisamente questo barone è pieno di risorse,» ella disse a Lolotte. Lolotte non aveva dimenticato le parole agrodolci dette da Amelia a proposito delle donne che si cucivano da sé i vestiti. «Da quando riconoscete i baroni dell'Impero?» le rispose sorridendo. Luciano aveva cercato di divinizzare la donna amata in un'ode cui aveva dato quel titolo che inventano tutti i giovani appena usciti di collegio. Quell'ode, amorosamente rifinita, abbellita con tutta la passione ch'egli sentiva in cuore, gli parve la sola opera capace di lottare con la poesia di Chénier. Guardò con aria piuttosto impertinente la signora de Bargeton dicendo: A LEI! Poi assunse un atteggiamento fiero per sciorinare quel componimento ambizioso, perché il suo amor proprio d'autore si sentiva a suo agio dietro le sottane della signora de Bargeton. In quel momento, sotto gli occhi delle altre donne, Naïs tradì il suo segreto. Malgrado l'abitudine che aveva di dominare quel mondo dall'alto della sua intelligenza, non poté fare a meno di tremare per Luciano. Diventò impacciata, i suoi occhi ebbero l'aria di invocare indulgenza; infine fu costretta ad abbassare lo sguardo e a nascondere la gioia che provava ascoltando le strofe da lei ispirate. «Voi lo comprendete questo arzigogolo?» chiese Amelia al signor du Châtelet rivolgendogli un'occhiata civettuola. «Sono versi come ne abbiamo scritti tutti, più o meno, appena usciti dal collegio,» rispose il barone con aria annoiata per attenersi al suo ruolo di giudice che non si stupisce di niente. «Un tempo ci abbandonavamo alle nebbie ossianiche, con tutto l'armamentario delle Malvine, dei Fingal, delle apparizioni nebulose, dei guerrieri che uscivano dalle tombe con una stella in capo. Oggi, quel ciarpame poetico è stato sostituito da Jeova, dai sistri, dagli angeli, dalle piume dei serafini, da tutto il guardaroba del paradiso rimesso a nuovo con le parole immenso, infinito, solitudine, intelligenza. Ci sono i laghi, c'è la parola di Dio, c'è una specie di panteismo cristianizzato, arricchito di rime rare, ricercate, come smeraldo e ribaldo, finestra e ginestra, ecc. In conclusione, abbiamo cambiato latitudine: invece di essere al nord, siamo in oriente: ma le tenebre rimangono fitte.» «Se l'ode è oscura,» disse Zefirina, «la dedica mi sembra molto chiara.» «E l'armatura dell'arcangelo è un abito di mussola leggerissima,» disse Francesco. Benché l'educazione esigesse che l'ode fosse giudicata stupenda per compiacere la signora de Bargeton, le signore, furiose di non avere a loro disposizione un poeta che le trattasse da angeli, si alzarono con fare annoiato mormorando dei gelidi benissimo, bello, perfetto. «Se mi amate, non farete i complimenti né all'autore né al suo angelo,» disse Lolotte al caro Adriano con un tono dispotico che costrinse questi all'obbedienza. «Dopo tutto, sono solo frasi,» disse Zefirina a Francesco, «e l'amore è una poesia in azione.» «Voi, Zizine, avete detto una cosa che pensavo, ma che non avrei saputo esprimere con tanta eleganza,» rispose prontamente Stanislao esaminandosi minuziosamente dalla testa ai piedi con uno sguardo carezzevole. «Non so cosa pagherei,» disse Amelia a du Châtelet, «per vedere umiliata la boria di Naïs che si fa trattare da arcangelo, come se fosse più di noi, e che ci confonde con il figlio di un farmacista e di una infermiera, che ha per sorella un'operaia e lavora da uno stampatore.» «E lui continua il mestiere del padre, perché quello che ci ha dato mi sembra uno sciroppo,» disse Stanislao prendendo una delle sue pose più irritanti. «Sciroppo per sciroppo, preferisco qualche altra cosa.» In un batter d'occhio tutti si misero all'unisono per umiliare Luciano con frizzi carichi di aristocratica ironia. Lili, donna pia, compì la sua azione caritatevole dicendo che era ora d'illuminare Naïs, molto prossima a commettere una pazzia. Francesco, il diplomatico, si assunse il compito di condurre a buon fine la sciocca cospirazione alla quale quelle creature meschine si appassionarono come al finale di un dramma, e nella quale videro un'avventura da raccontare l'indomani. L'ex console, non molto preoccupato di doversi battere con un giovane poeta che, sotto gli occhi della donna amata, avrebbe reagito a una parola insultante, comprese che bisognava attaccare Luciano con un'arma sacra contro la quale la vendetta fosse impossibile. Imitò l'esempio che gli aveva dato lo scaltro du Châtelet quando si era trattato di far recitare i versi a Luciano. Si avvicinò al vescovo, fingendo di condividere l'entusiasmo di Sua Eccellenza per l'ode di Luciano; poi gli fece credere che la madre di Luciano era una donna superiore e di grande modestia, ispiratrice di tutte le poesie del figlio. Il più grande piacere di Luciano era di veder rendere giustizia alla madre, che adorava. Inculcata questa idea nella mente del vescovo, Francesco aspettò che la conversazione gli offrisse il destro di tirare in ballo la frase offensiva che aveva meditato di far dire a monsignore. Quando Francesco e il vescovo tornarono nel gruppo al centro del quale si trovava Luciano, l'attenzione di coloro che già stavano facendo bere la cicuta, a piccoli sorsi, al giovane poeta si raddoppiò. Assolutamente nuovo alle manovre dei salotti, Luciano non sapeva fare altro che guardare la signora de Bargeton e rispondere goffamente alle domande maligne che gli venivano rivolte. Ignorava i nomi e i titoli della maggior parte dei presenti, e non sapeva che genere di conversazione intrattenere con delle signore che gli dicevano stupidaggini delle quali si vergognava. Inoltre, si sentiva troppo lontano da quelle divinità di Angoulême che lo chiamavano ora signor Chardon, ora signor de Rubempré, mentre fra di loro esse si chiamavano Lolotte, Adriano, Astolfo, Lili, Fifine. La sua confusione raggiunse il colmo quando, avendo preso Lili per un nome maschile, chiamò signor Lili l'arcigno signor de Senonches. Il Nembrotte interruppe Luciano con un: «Signor Lulu?» che fece arrossire fino alle orecchie la signora de Bargeton. «Bisogna essere proprio infatuati per ammettere qui e per presentarci questo giovincello,» disse il signor de Senonches a mezza voce. «Signora marchesa,» disse Zefirina alla signora de Pimentel, a bassa voce ma in modo da farsi sentire, «non trova che ci sia una grande rassomiglianza fra il signor Chardon e il signor de Cante-Croix?» «La rassomiglianza è ideale,» rispose sorridendo la signora de Pimentel. «La gloria ha delle seduzioni che si possono confessare,» disse la signora de Bargeton alla marchesa. «Ci sono donne che s'innamorano della grandezza e altre che s'innamorano della bassezza,» aggiunse guardando Francesco. Zefirina non capì, perché il suo console, per lei, era molto grande; ma la marchesa si schierò dalla parte di Naïs mettendosi a ridere. «Siete un uomo fortunato, signore,» disse a Luciano il signor de Pimentel che si trattenne dal chiamarlo signor de Rubempré dopo averlo chiamato Chardon, «non dovete sapere che cosa sia la noia.» «Lavorate in fretta?» gli chiese Lolotte col tono che avrebbe usato per chiedere a un falegname: Ci mettete molto a fare una scatola? Luciano fu completamente stordito da questa mazzata; ma rialzò il capo quando sentì la signora de Bargeton rispondere, sorridendo: «Mia cara, la poesia non spunta nella testa del signor de Rubempré come l'erba nei nostri cortili.» «Signora,» disse il vescovo a Lolotte, «non avremo mai troppo rispetto per le anime nobili nelle quali Dio pone uno dei suoi raggi. Sì, la poesia è una cosa santa. Chi dice poesia dice sofferenza. Le strofe che voi ammirate sono frutto di chissà quante notti silenziose! Salutate con amore il poeta che conduce quasi sempre una vita infelice, e al quale Dio riserva certamente un posto in cielo fra i suoi profeti. Questo giovane è un poeta,» aggiunse ponendo una mano sulla testa di Luciano, «non vedete i segni del destino impressi su questa bella fronte?» Felice di essere difeso con parole tanto nobili, Luciano rivolse al vescovo uno sguardo pieno di gratitudine, senza sapere che il degno prelato sarebbe stato il suo carnefice. La signora de Bargeton lanciò sul gruppo nemico sguardi carichi di trionfo, che si conficcarono come tanti aculei nel cuore dei suoi rivali raddoppiandone la rabbia. «Ah! monsignore,» rispose il poeta sperando di colpire quelle teste vuote con il suo scettro d'oro, «la gente comune non ha né il vostro spirito né la vostra carità. I nostri dolori sono ignorati, nessuno conosce i nostri travagli. Fatica meno il minatore a estrarre l'oro dalla miniera che noi a strappare le nostre immagini dai visceri della più ingrata delle lingue. Se lo scopo della poesia è di esporre le idee nel modo esatto perché tutti possano vederle e sentirle, il poeta deve percorrere incessantemente la scala delle intelligenze umane per poterle soddisfare tutte; deve nascondere sotto i più vivaci colori la logica e il sentimento, due potenze nemiche; deve racchiudere tutto un mondo di pensieri in una parola, riassumere intere filosofie in una immagine; infine i suoi versi sono dei semi i cui fiori debbono sbocciare nei cuori, cercandovi i solchi tracciati dai sentimenti personali. Non bisogna forse aver provato tutto per esprimere tutto? E sentire intensamente non è forse soffrire? Perciò le poesie vedono la luce solo dopo viaggi penosi nelle vaste regioni del pensiero e del mondo. Non è forse a immortali travagli che dobbiamo certe creature la cui vita è più autentica di quella degli esseri reali, la Clarissa di Richardson, la Camilla di Chénier, la Delia di Tibullo, l'Angelica dell'Ariosto, la Francesca di Dante, l'Alceste di Molière, il Figaro di Beaumarchais, la Rebecca di Walter Scott, il Don Chisciotte di Cervantes?» «E voi, che cosa ci creerete?» chiese du Châtelet. «Annunciare simili creazioni,» rispose Luciano, «sarebbe come darsi la patente di uomo di genio. Inoltre questi parti sublimi richiedono una lunga esperienza del mondo, uno studio delle passioni e degli interessi umani che io non ho ancora potuto compiere; ma che comincio a fare,» disse con amarezza gettando uno sguardo vendicativo sul gruppo. «Al cervello occorre molto tempo...» «La vostra gestazione sarà laboriosa,» disse il signor du Hautoy interrompendolo. «La vostra eccellente madre potrà aiutarvi,» disse il vescovo. Questa frase preparata con tanta abilità, questa vendetta che tutti aspettavano fece brillare negli occhi dei presenti un lampo di gioia. Su tutte le bocche affiorò un sorriso di aristocratica soddisfazione, aumentata dall'imbecillità del signor de Bargeton che scoppiò a ridere in ritardo. «Monsignore, voi siete un po' troppo sottile per noi in questo momento, le signore non vi comprendono,» disse la signora de Bargeton che con questa semplice frase paralizzò le risa e attirò su di sé gli sguardi stupefatti. «Un poeta che attinge tutte le sue ispirazioni dalla Bibbia, ha nella Chiesa una vera madre. Signor de Rubempré, diteci San Giovanni a Patmo, o il Festino di Baldassarre, per di mostrare a monsignore che Roma è sempre la Magna parens di Virgilio.» Le signore si scambiarono un sorriso nel sentire le due parole latine pronunciate da Naïs. All'alba della vita, anche i cuori più coraggiosi non sfuggono all'avvilimento. A tutta prima quella mazzata aveva mandato a fondo Luciano: ma con un colpo di piede egli tornò a galla, giurando a se stesso che avrebbe dominato quel mondo. Come un toro eccitato da mille frecce, si rialzò furioso, per obbedire alla voce di Luisa, e declamò San Giovanni a Patmo: ma i tavoli da gioco avevano attirato i giocatori, i quali nelle vecchie abitudini trovavano un piacere che la poesia non aveva dato loro. Per di più, là vendetta di tante vanità ferite non sarebbe stata completa se non si fosse manifestato un profondo disprezzo per la poesia indigena, lasciando soli Luciano e la signora de Bargeton. Sembrò che tutti avessero qualcosa da fare: questo andò a discorrere d'una certa strada cantonale con il prefetto, quella parlò di variare le attrazioni della serata facendo un po' di musica. L'alta società di Angoulême, che sapeva di non essere un buon giudice in fatto di poesia, si affollò intorno ai Rastignac e ai Pimentel, curiosa di conoscere la loro opinione su Luciano. La grande influenza che quelle due famiglie esercitavano nel dipartimento veniva sempre riconosciuta nelle grandi circostanze; tutti li invidiavano e li corteggiavano, perché tutti prevedevano di aver bisogno della loro protezione. «Che ve ne pare del nostro poeta e della sua poesia?» disse Giacomo alla marchesa nelle cui terre andava a caccia. «Per essere versi di provincia,» disse costei sorridendo, "non sono affatto male; d'altra parte, un così bel poeta non può far nulla male.» Tutti trovarono adorabile questa sentenza, e la ripeterono mettendovi più cattiveria di quanta la marchesa avesse inteso mettervi. Du Châtelet fu invitato ad accompagnare il signor de Bartas che massacrò la grande aria di Figaro. Una volta spalancate le porte alla musica, fu necessario ascoltare, cantata da Châtelet, la romanza cavalleresca scritta sotto l'Impero da Chateaubriand. Poi vennero i pezzi a quattro mani eseguiti da alcune fanciulle e reclamati dalla signora du Brossard che voleva far brillare il talento della sua Camilla davanti agli occhi del signor de Séverac. La signora de Bargeton, ferita dal disprezzo con cui tutti bollavano il suo poeta, disdegnò a sua volta la compagnia e si ritirò nel salottino per tutto il tempo in cui si fece della musica. Nel salottino fu raggiunta dal vescovo, al quale il gran vicario aveva spiegato la profonda ironia della sua arguzia involontaria, e che voleva riabilitarsi. La signorina de Rastignac, che era stata sedotta dalla poesia, si infilò nel salottino all'insaputa della madre. Mentre si metteva a sedere sul canapè accanto a Luciano, Luisa riuscì, senza essere vista né sentita, a sussurrare nell'orecchio del suo poeta: "Angelo mio, non ti hanno capito! ma... I tuoi versi son dolci, e dolce m'è ripeterli.» Luciano, consolato da questa lode, dimenticò per un momento i suoi dolori. «Non esiste gloria a buon mercato,» gli disse la signora de Bargeton prendendogli e stringendogli la mano. «Soffrite, amico mio, voi sarete grande, il vostro dolore è il prezzo dell'immortalità. Vorrei anch'io sopportare i travagli di una lotta. Dio vi guardi da una vita grigia e senza lotte, in cui le ali dell'aquila non trovano spazio sufficiente. Invidio le vostre sofferenze perché, almeno, voi vivete! Voi impiegherete le vostre forze, voi spererete in una vittoria! La vostra lotta sarà gloriosa. Quando sarete arrivato nella sfera imperiale ove troneggiano le grandi intelligenze, ricordatevi dei poveri diseredati dalla sorte, il cui intelletto avvizzisce senza l'ossigeno dello spirito, e che muoiono sapendo cos'è la vita senza averla potuta vivere, che hanno avuto occhi acuti e non hanno visto nulla, che avevano l'olfatto delicato e hanno sentito solo i miasmi dei fiori marci. Cantate allora la pianta che si dissecca in fondo a una foresta, soffocata da liane, da vegetazioni lussureggianti, frondose, senza essere stata amata dal sole, della pianta che muore senza aver dato fiori! Non sarebbe un poema orribilmente malinconico, un tema completamente fantastico? Che composizione sublime il ritratto d'una giovinetta nata sotto i cieli dell'Asia, o di una figlia del deserto trasportata in un freddo paese dell'Occidente, che invoca il suo adorato sole, che muore di pene incomprese, entrambe sopraffatte dal freddo e dall'amore! Sarebbe il simbolo di tante esistenze.» «Descrivereste così l'anima che si ricorda del cielo,» disse il vescovo, «un poema che deve essere già stato fatto e me ne sono rallegrato vedendone un frammento nel Cantico dei cantici.» «Fatelo,» disse Laura de Rastignac esprimendo una innocente fiducia nel genio di Luciano. «Alla Francia manca un grande poema sacro,» disse il vescovo. «Credetemi, la gloria e la fortuna arrideranno all'uomo di talento che lavorerà per la religione.» «Lo farà, monsignore,» disse la signora de Bargeton con enfasi. «Non vedete l'idea del poema che spunta già come la fiamma dell'aurora nei suoi occhi?» «Naïs ci sta trattando proprio male,» diceva Fifine. «Ma che fa?» «Non la sentite?» rispose Stanislao. «È a cavallo dei suoi paroloni che non hanno né capo né coda.» Amelia, Fifine, Adriano e Francesco apparvero sulla porta del salottino, in compagnia della signora de Rastignac che cercava la figlia per prendere congedo. «Naïs,» dissero le due donne, felici di turbare l'intimità del salottino, «siate così gentile da suonarci qualcosa.» «Bambina mia,» rispose la signora de Bargeton, «il signor de Rubempré ci dirà il suo San Giovanni a Patmo, un magnifico poema biblico.» «Biblico!» ripeté Fifine sconcertata. Amelia e Fifine tornarono nel salone recandovi quella parola che fu come una pastura per i denigratori. Luciano si dispensò dal dire il poema adducendo come scusa la sua scarsa memoria. Quando ricomparve nel salotto, non suscitò più il minimo interesse. Tutti conversavano o giocavano. Il poeta era stato spogliato della sua aureola, i proprietari non vedevano in lui niente di utile, i presuntuosi lo temevano come una potenza ostile alla loro ignoranza; le donne invidiose della signora de Bargeton, la Beatrice di questo nuovo Dante, come disse il vicario generale, gli gettavano sguardi freddi e sdegnosi. «Ecco che cosa è il mondo!» si disse Luciano mentre tornava all'Houmeau per le rampe di Beaulieu: perché nella vita ci sono momenti in cui si preferisce prendere la via più lunga per trattenere, camminando, il moto convulso delle idee che ci assalgono ed alle quali ci vogliamo abbandonare. La collera dell'ambizioso respinto, invece di scoraggiarlo, dava a Luciano nuove forze. Come tutti coloro che, trascinati dall'istinto, pervengono a una sfera elevata nella quale ancora non sanno mantenersi, egli si riprometteva di sacrificare tutto per restare nell'alta società. Cammin facendo, estraeva ad uno ad uno gli strali avvelenati che lo avevano colpito, parlava fra sé ad alta voce, affrontava gli sciocchi con i quali aveva avuto a che fare; trovava delle risposte acute per le domande insulse che gli erano state rivolte, e si disperava di questa tardiva presenza di spirito. Arrivato alla strada di Bordeaux che serpeggia in fondo alla rupe e costeggia le sponde della Charente, gli sembrò di vedere, al chiaro di luna, Eva e Davide seduti su una trave in riva al fiume, vicino ad una fabbrica, e prese un sentiero che scendeva verso di loro. Mentre Luciano correva verso la tortura che lo aspettava a casa della signora de Bargeton, sua sorella indossava un vestito di percalle rosa a millerighe, un cappello di paglia, uno scialletto di seta; un abbigliamento semplice, ma che sembrava particolarmente accurato, come succede sempre, quando l'innata distinzione mette in rilievo anche i dettagli più trascurabili. Perciò, quando deponeva la sua veste da operaia, Eva metteva sempre in soggezione Davide. Benché lo stampatore avesse deciso di parlare di sè, non trovò più niente da dire quando porse il braccio alla bella Eva per attraversare l'Houmeau. L'amore si compiace di questi timori riverenziali, simili a quelli che la gloria di Dio suscita nei fedeli. I due innamorati si avviarono silenziosi verso il ponte Sainte-Anne per raggiungere la riva sinistra della Charente. Eva, che era imbarazzata da quel silenzio, si fermò a metà del ponte per contemplare il fiume che, da quel punto e fino al cantiere del polverificio, formava una lunga golena sulla quale il sole al tramonto gettava in quel momento un gaio sprazzo di luce. «Che bella serata!» disse cercando un argomento di conversazione, «l'aria è insieme tiepida e fresca, i fiori profumano, il cielo è magnifico.» «Tutto parla al nostro cuore,» rispose Davide cercando di arrivare al tema dell'amore per analogia. «Gli innamorati provano un piacere immenso a scoprire nel paesaggio, nella trasparenza dell'aria, nei profumi della terra, la poesia che hanno nell'anima. La natura parla per loro.» «E scioglie anche la loro lingua,» disse Eva ridendo. «Eravate tanto silenzioso mentre attraversavamo l'Houmeau. Sapete che ero imbarazzata...» «Vi trovavo tanto bella che ero in estasi,» rispose candidamente Davide. «E adesso sono meno bella?» gli chiese lei. «No; ma sono così felice di passeggiare solo con voi, che...» Si fermò interdetto e guardò le colline dalle quali scende la strada di Saintes. «Se vi fa piacere questa passeggiata, ne sono lieta, perché mi sento in obbligo di offrirvi una serata in cambio di quella che mi avete sacrificato. Rifiutando di andare dalla signora de Bargeton, siete stato tanto generoso quanto lo era stato Luciano rischiando di mandarla in collera con la sua richiesta.» «Non generoso, ma saggio,» rispose Davide. «Poiché siamo soli sotto il cielo, senza altri testimoni che i roseti e i boschetti che bordano la Charente, permettetemi, cara Eva, di esprimervi le preoccupazioni suscitate in me dalla condotta di Luciano. Dopo ciò che gli ho detto, spero che i miei timori vi appariranno solo come un eccesso di amicizia. Voi e vostra madre avete fatto di tutto per collocarlo al di sopra della sua posizione; ma, eccitando la sua ambizione, non l'avete imprudentemente esposto a grandi sofferenze? Come si manterrà nel mondo in cui lo trascinano i suoi gusti? Io lo conosco! La sua natura lo porta ad amare la messe, ma non il lavoro. Gli impegni mondani divoreranno il suo tempo, e il tempo è il solo capitale di coloro che non hanno altro patrimonio che l'intelligenza; a lui piace brillare, il mondo acuirà i suoi desideri che nessun tesoro potrà soddisfare, spenderà denaro e non ne guadagnerà; in breve, voi l'avete abituato a credersi grande; ma prima di riconoscere una superiorità qualsiasi, il mondo esige dei successi strepitosi. Ora, i successi letterari si conquistano solo nella solitudine e con un lavoro ostinato. Che darà la signora de Bargeton a vostro fratello in cambio di tante giornate passate ai suoi piedi? Luciano è troppo orgoglioso per accettare aiuti da lei, e noi sappiamo che è ancora troppo povero per continuare a frequentare quell'ambiente che è doppiamente pericoloso. Prima o poi quella donna abbandonerà il nostro caro fratello dopo avergli fatto perdere il gusto del lavoro, dopo aver sviluppato in lui il gusto del lusso, il disprezzo per la nostra vita parca, l'amore per i piaceri, l'inclinazione all'ozio, dissolutezza delle anime poetiche. Sì, io temo che questa gran dama si diverta con Luciano come un giocattolo: o lo ama sinceramente e gli farà dimenticare tutto, o non lo ama e lo renderà infelice, perché egli è pazzo di lei.» «Voi mi agghiacciate il cuore,» disse Eva fermandosi alla chiusa della Charente. «Ma, fino a che mia madre avrà la forza di fare il suo ingrato mestiere e finché io vivrò, il frutto del nostro lavoro basterà forse alle spese di Luciano, e gli permetterà di aspettare il momento in cui la fortuna gli arriderà. Il coraggio non mi mancherà mai, perché l'idea di lavorare per una persona amata,» disse Eva animandosi, «cancella l'amarezza e il peso del lavoro. Io sono lieta pensando a colui per il quale mi do tanta pena, se questa si può chiamare pena. Sì, non abbiate alcun timore, guadagneremo denaro a sufficienza perché Luciano possa frequentare il bel mondo. La sua fortuna è là.» «Là è anche la sua rovina,» riprese Davide. «Ascoltatemi, cara Eva. La lentezza con cui l'intelletto crea le sue opere esige il possesso di una fortuna notevole o il sublime stoicismo di una vita povera. Credetemi! Luciano ha così in orrore le privazioni della miseria, ha assaporato con tanto piacere il gusto delle feste, l'incenso del successo, il suo amor proprio si è così ingigantito nel salotto della signora de Bargeton, che farà di tutto per non fallire; e il frutto del vostro lavoro non sarà mai sufficiente alle sue necessità.» «Ma allora, voi siete un falso amico!» esclamò Eva disperata. «Altrimenti non ci scoraggereste in questo modo.» «Eva! Eva!» rispose Davide, «io vorrei essere il fratello di Luciano. Voi sola potete darmi questo titolo che gli permetterebbe di accettare tutto da me, che mi darebbe il diritto di dedicarmi a lui col santo amore che voi ponete nei vostri sacrifici, ma con saggio discernimento. Eva, fanciulla adorata, volete che Luciano abbia un tesoro al quale poter attingere senza vergogna? La borsa di un fratello non sarà forse la sua? Se voi sapeste tutte le riflessioni che la nuova situazione di Luciano mi ha suggerito! Se egli vuole frequentare la signora de Bargeton, non deve più essere il mio proto, non deve più abitare all'Houmeau, voi non dovete più fare l'operaia, vostra madre non deve più fare il suo mestiere. Se voi acconsentiste a divenire mia moglie, tutto si appianerebbe: Luciano potrebbe abitare da me, al secondo piano, in attesa che io gli costruisca un appartamento sulla tettoia in fondo al cortile, a meno che mio padre non voglia alzare un secondo piano. Gli organizzeremo così una vita senza preoccupazioni, una vita indipendente. Il desiderio di sostenere Luciano mi spronerà a migliorare la mia condizione dandomi quel coraggio che non avrei se si trattasse solo di me; ma dovete essere voi a permettermi questa dedizione. Forse un giorno egli andrà a Parigi, la sola scena sulla quale si possa esibire, e i suoi meriti saranno riconosciuti e retribuiti. La vita a Parigi è cara, e tre persone per mantenerlo non saranno troppe. D'altra parte, voi e vostra madre non avete bisogno di un sostegno? Cara Eva, sposatemi per amore di Luciano. Più tardi forse m'amerete vedendo gli sforzi che farò per servirlo e per rendervi felice. Noi siamo entrambi di gusti modesti, avremo poche esigenze; la felicità di Luciano sarà il nostro grande compito, e il suo cuore sarà lo scrigno in cui riporremo fortuna, sentimenti, emozioni, tutto!» «Le convenienze ci separano,» disse Eva commossa nel vedere quanto piccolo si facesse questo grande amore. «Voi siete ricco e io sono povera. Bisognerebbe amare molto per passare sopra a una simile difficoltà.» «Non mi amate dunque abbastanza ?» esclamò Davide atterrito. «Ma vostro padre si opporrà...» «Allora,» rispose Davide, «se si tratta solo di consultare mio padre, sarete mia moglie. Eva, mia cara Eva! In questo momento mi rendete molto facile affrontare la vita. Avevo, ahimè! il cuore gonfio dei sentimenti che non potevo né sapevo esprimere. Ditemi solo che mi amate un poco e troverò il coraggio necessario per parlarvi di tutto il resto.» «Sinceramente,» ella disse, «voi mi confondete; ma poiché ci stiamo confidando i nostri sentimenti, vi dirò che nella mia vita non ho mai pensato a nessun altro che a voi. Ho visto in voi un uomo al quale una donna deve essere fiera di appartenere, e non osavo sperare per me, povera operaia senza avvenire, una fortuna così grande.» «Basta, basta,» disse Davide sedendosi sulla sbarra delle chiuse vicino alla quale si erano ritrovati, perché non avevano fatto altro che camminare avanti e indietro nello stesso posto come dei folli. «Ma che avete?» gli disse lei manifestando per la prima volta quella deliziosa sollecitudine che le donne provano per gli esseri che appartengono loro. «Niente di male,» disse Davide. «Scorgo davanti a me tutta una vita felice e la mia mente è come abbagliata, la mia anima è sopraffatta. Perché sono così felice?» disse con espressione malinconica. «Ma io lo so.» Eva guardo Davide con un'aria vezzosa e interrogativa che chiedeva una spiegazione. «Cara Eva, io ricevo più di quanto dia. Perciò vi amerò più di quanto voi mi amerete, perché ho più motivo di amarvi: voi siete un angelo e io sono un uomo.» «Io non sono così sapiente,» rispose Eva sorridendo. «Anch'io vi amo...» «Quanto amate Luciano?» chiese Davide interrompendola. «Abbastanza per diventare vostra moglie, per consacrarmi a voi e cercare di non darvi alcun dolore nella vita, dapprima un po' difficile, che condurremo insieme.» «Vi siete accorta, cara Eva, che vi ho amata fin dal primo giorno che vi ho vista?» «Qual è la donna che non sente di essere amata?» rispose lei. «Lasciate dunque che dissipi gli scrupoli suscitati in voi dalla mia pretesa ricchezza. Sono povero, mia cara Eva. Sì, mio padre si è divertito a rovinarmi, ha speculato sul mio lavoro, ha fatto come molti falsi benefattori con i loro beneficati. Se diventerò ricco sarà per merito vostro. Non è una frase da innamorato, ma una riflessione meditata. Devo farvi conoscere i miei difetti, che sono enormi per un uomo costretto a crearsi una posizione. Il mio carattere, le mie abitudini, le occupazioni che prediligo mi rendono inadatto a tutto ciò che è commercio e speculazione, e tuttavia solo l'esercizio di una qualche attività potrà farci diventare ricchi. Se riuscissi a scoprire una miniera d'oro, sarei incapace di sfruttarla. Ma voi, che per amore di vostro fratello vi siete abbassata fino alle piccolezze della vita quotidiana, che avete il genio dell'economia, la paziente assiduità del vero commerciante, voi raccoglierete la messe che io avrò seminato. La nostra situazione, giacché da molto tempo mi considero parte della vostra famiglia, mi opprime tanto che ho passato giorni e notti a cercare un mezzo per fare denaro. Le mie nozioni di chimica e l'osservazione delle esigenze del commercio mi hanno messo sulla strada di una scoperta lucrosa. Non posso dirvi nulla ancora, prevedo che le cose andranno molto per le lunghe. Forse soffriremo per qualche anno; ma riuscirò a trovare i procedimenti industriali che non sono il solo a ricercare ma che, se arriverò per primo, ci procureranno una grande fortuna. Non ne ho parlato a Luciano, perché il suo carattere impetuoso rovinerebbe tutto, egli trasformerebbe le mie speranze in realtà, vivrebbe da gran signore e forse si caricherebbe di debiti. Perciò vi prego di mantenere il segreto. Solo la vostra compagnia cara e dolce potrà consolarmi durante queste lunghe prove, mentre il desiderio di procurare la ricchezza a voi e a Luciano mi darà costanza e tenacia...» «Avevo già capito,» disse Eva interrompendolo, «che eravate uno di quegli inventori ai quali, come al mio povero padre, è necessaria una donna che abbia cura di loro.» «Allora voi mi amate! Ah, ditelo senza timore a me che ho visto nel vostro nome un simbolo del mio amore. Eva era la sola donna che esistesse al mondo, e ciò che era materialmente vero per Adamo lo è moralmente per me. Mio Dio! mi amate?» «Sì,» disse lei prolungando quella semplice sillaba quasi volesse esprimere tutta la portata del suo sentimento. «Ebbene, sediamoci qui,» disse Davide conducendo Eva per mano verso una lunga trave posta sotto le ruote di una cartiera. «Lasciate che respiri l'aria della sera, che ascolti il gracidio delle rane, che ammiri i raggi della luna tremolanti sull'acqua; lasciate che domini questa natura in cui vedo scritta dovunque la mia fortuna e che mi appare per la prima volta nel suo splendore, illuminata dall'amore, abbellita da voi, Eva, anima mia! ecco il primo momento di perfetta gioia che la sorte mi abbia dato! Dubito che Luciano sia felice quanto me!» Sentendo la mano di Eva umida e tremante nella sua, Davide vi lasciò cadere una lacrima. «Non posso conoscere il segreto?...» disse Eva con voce carezzevole. «Ne avete diritto, perché vostro padre si occupò di questo problema che sta diventando grave. Ed ecco perché. La caduta dell'Impero renderà pressoché generale l'uso della biancheria di cotone, perché più a buon mercato rispetto alla biancheria di filo. Oggi come oggi, la carta si fabbrica ancora con stracci di canapa e lino; ma questi materiali sono cari, e il loro alto prezzo frena lo sviluppo che la stampa dovrà necessariamente avere in Francia. Ora, non si può intensificare la produzione degli stracci. Gli stracci provengono dall'uso della biancheria, e la popolazione di un paese ne può dare solo una quantità determinata. Questa quantità può essere accresciuta solo da un incremento delle nascite. Per registrare un sensibile aumento nella popolazione, un paese ha bisogno di un quarto di secolo e di grandi rivoluzioni nei costumi, nel commercio e nell'agricoltura. Perciò, se le necessità dell'industria cartaria diventano superiori alla produzione di stracci della Francia, doppie o triple, bisognerebbe, per mantenere la carta a basso prezzo, introdurre nella sua fabbricazione una materia prima diversa dagli stracci. Questo ragionamento si fonda su un fatto che si verifica qui. Le cartiere di Angoulême, le ultime dove si fabbricherà la carta con stracci di filo, si accorgono che la percentuale di cotone nella pasta aumenta in modo impressionante». A una domanda della giovane operaia, Davide rispose dandole sull'industria della carta delle spiegazioni che non saranno fuori luogo in un'opera che deve la sua esistenza materiale tanto alla carta quanto alla stampa; tuttavia la lunga digressione fra l'innamorato e la sua amata ci guadagnerà senza dubbio ad essere riassunta. La carta, prodotto non meno meraviglioso della stampa, cui serve di base, esisteva già da molto tempo in Cina allorché, grazie alle vie misteriose del commercio, giunse nell'Asia Minore dove, verso l'anno 750, secondo certe notizie, si usava carta fatta con cotone triturato e ridotto in poltiglia. La necessità di trovare un surrogato alla pergamena, il cui prezzo era eccessivo, fece sì che venisse scoperta la carta di stracci, secondo alcuni a Basilea, nel 1170, ad opera di alcuni profughi greci, secondo altri a Padova, nel 1301, per merito di un italiano di nome Pax. Così la carta andò lentamente perfezionandosi, ed è certo che già sotto Carlo VI si fabbricava a Parigi la pasta delle carte da gioco. Quando gli immortali Faust, Coster e Gutemberg ebbero inventato il «libro», degli artigiani, sconosciuti come tanti grandi artisti di quell'epoca, adeguarono la fabbricazione della carta alle necessità della tipografia. In quel quindicesimo secolo, tanto vigoroso e ingenuo, i nomi dei diversi formati di carta, così come i nomi dei caratteri, ebbero l'impronta dell'ingenuità del tempo. Così la carta Uva, la Gesù, la Colombaio, la Vaso, la Scudo, la Conchiglia, la Corona, presero il nome dal grappolo, dall'immagine di Nostro Signore, dalla corona, dallo scudo, dal vaso, insomma dalla filigrana impressa in mezzo al foglio, come più tardi, sotto Napoleone, venne l'uso di metterci un'aquila: di qui la carta chiamata Aquilona. Nello stesso modo i caratteri Cicero, Sant'Agostino, Canone presero il loro nome dai libri di liturgia, dalle opere teologiche e dai trattati di Cicerone nei quali furono impiegati per la prima volta. Il corsivo o italico fu inventato dai Manuzio, a Venezia: di qui il suo nome. Prima dell'invenzione della carta meccanica, di lunghezza illimitata, i formati più grandi erano il Gran Gesù e il Gran Colombaio; quest'ultimo serviva solo per gli atlanti e per le incisioni. In realtà, le dimensioni della carta da stampa dipendevano da quelle del piano del torchio. Nel momento in cui Davide parlava, la carta continua sembrava una chimera in Francia, sebbene Denis Robert d'Essone avesse inventato, verso il 1799, una macchina destinata alla sua fabbricazione, macchina che in seguito Didot-Saint-Léger cercò di perfezionare. La carta velina, inventata da Ambrogio Didot, risale appena al 1780. Questo rapido panorama dimostra inequivocabilmente che tutte le grandi conquiste dell'industria e dell'intelligenza sono avvenute con molta lentezza e attraverso processi inavvertiti, proprio come capita nella natura. Per arrivare alla perfezione, la scrittura, la lingua forse!... sono andate a tentoni come la tipografia e l'industria cartaria. «I cenciaioli raccolgono in tutta Europa gli stracci, la biancheria vecchia, e comprano gli scarti di tessuti di ogni specie,» concluse lo stampatore. «Questi scarti, una volta fatta la cernita, vengono immagazzinati dai commercianti di stracci all'ingrosso, che forniscono le cartiere. Per avere un'idea di questo commercio, sappiate, signorina, che nel 1814 il banchiere Cardon, proprietario delle vasche di Buges e di Langlée, dove Léorier de l'Isle tentò nel 1776 la soluzione del problema al quale s'interessò vostro padre, ebbe una causa con un certo signor Proust a proposito di un errore di due milioni nella pesatura degli stracci su un totale di dieci milioni di libbre, circa quattro milioni di franchi. Il fabbricante lava gli stracci e li riduce in una poltiglia chiara che viene passata, esattamente come la cuoca passa una salsa al setaccio, su un telaio di ferro chiamato forma, rivestito all'interno con un tessuto metallico in mezzo al quale si trova la filigrana che dà il nome alla carta. Dalla grandezza della forma dipende dunque la grandezza della carta. Ai tempi in cui lavoravo presso i signori Didot ci si interessava già a questo problema, e l'interesse è tuttora vivo; infatti, il perfezionamento che vostro padre cercava è una delle necessità più imperiose del nostro tempo. Ecco perché. Sebbene la durata del filo, paragonata a quella del cotone, renda, in definitiva, il filo meno caro del cotone, i poveri, che si trovano sempre di fronte al problema di dover spendere una certa somma, preferiscono sborsare di meno anziché di più e subiscono, in virtù del vae victis! delle perdite enormi. La classe borghese si comporta come quella povera. Così la biancheria di filo viene a mancare. In Inghilterra, dove i quattro quinti della popolazione ha sostituito il filo con il cotone, si fabbrica ormai solo carta di cotone. Questa carta, che ha innanzitutto l'inconveniente di trinciarsi e di rompersi, si scioglie nell'acqua tanto facilmente che un libro di carta di cotone sarebbe ridotto in poltiglia dopo un quarto d'ora, mentre un vecchio libro non andrebbe perduto anche se restasse in acqua due ore. Basterebbe farlo asciugare e, anche se ingiallito e sciupato, il testo sarebbe ancora leggibile, l'opera non andrebbe distrutta. Stiamo arrivando a un'epoca in cui, a causa del livellamento delle ricchezze, tutto impoverirà: vorremo biancheria e libri a buon mercato, così come cominciano ad essere richiesti i quadri piccoli perché nelle case manca lo spazio per i grandi. Le camicie e i libri non dureranno, ecco tutto. La solidità dei prodotti scompare. Perciò il problema da risolvere è della più grande importanza, per la letteratura, per le scienze e per la politica. Dunque, un giorno ci fu nel mio ufficio una vivace discussione sugli ingredienti di cui si servono in Cina per fabbricare la carta. Laggiù, grazie alle materie prime, la fabbricazione della carta ha raggiunto, fin dalle origini, una perfezione che manca alla nostra. Ci si occupò allora diffusamente della carta di Cina, molto superiore alla nostra per leggerezza e finezza, qualità preziose che non le impediscono di essere consistente; e, benché sia sottilissima, non è affatto trasparente. Un correttore molto istruito (a Parigi ci sono degli eruditi che fanno i correttori: Fourier e Pierre Leroux sono in questo momento correttori da La chevardière!...), dicevo, il conte de Saint-Simon, che a quel tempo faceva il correttore, capitò da noi nel bel mezzo della discussione. Ci disse allora che, secondo Kempfer e du Halde, la broussonetia forniva ai cinesi la materia prima per la loro carta, tutta vegetale, come la nostra del resto. Un altro correttore sostenne che la carta di Cina si fabbricava principalmente con una materia prima animale, la seta, abbondante in Cina. Venne fatta una scommessa davanti a me. Poiché i signori Didot sono gli stampatori dell'Istituto, naturalmente la questione fu sottoposta ad alcuni membri di quella assemblea di dotti. Il signor Marcel, ex direttore della stamperia imperiale, designato quale arbitro, mandò i due correttori a consultare il signor abate Grozier, bibliotecario all'Arsenale. A giudizio dell'abate Grozier, i due correttori perdettero entrambi la scommessa, la carta di Cina non si fabbrica né con la seta né con la broussonetia; la sua pasta è fatta con le fibre triturate del bambù. L'abate Grozier possedeva un libro cinese, un'opera al tempo stesso iconografica e tecnica, in cui si trovavano numerose illustrazioni che mostravano la fabbricazione della carta nelle sue varie fasi, e ci indicò le canne di bambù ammucchiate nell'angolo di una cartiera disegnata in maniera magistrale. Quando Luciano mi ha detto che tuo padre, grazie a una di quelle intuizioni che sono tipiche degli uomini di talento, aveva intravisto il mezzo di sostituire gli scarti della biancheria con una materia comune, presa direttamente dalla terra, come fanno i cinesi che si servono delle canne fibrose, ho classificato tutti i tentativi fatti dai miei predecessori e mi sono messo a studiare il problema. Il bambù è una canna: ovviamente, ho pensato alle canne del nostro paese. La mano d'opera in Cina non costa nulla; una giornata di lavoro vale tre soldi; così i cinesi, quando la carta esce dalla forma, possono metterla, foglio a foglio, fra tavole di porcellana bianca e riscaldata, per mezzo delle quali la pressano e le danno quella lucentezza, quella consistenza, quella leggerezza, quella finezza di seta che ne fanno la prima carta del mondo. Ebbene, bisogna sostituire i procedimenti dei cinesi per mezzo di qualche macchina. Con l'ausilio delle macchine si può giungere a risolvere il problema del basso costo che in Cina è determinato dal basso prezzo della mano d'opera. Se noi giungiamo a fabbricare a basso prezzo della carta di una qualità simile a quella della Cina, diminuiremo di più della metà il peso e lo spessore dei libri. Un Voltaire rilegato che, sulle nostre carte veline, pesa duecentocinquanta libbre, su carta Cina non ne peserebbe cinquanta. E questa senza dubbio è una conquista. Lo spazio disponibile nelle biblioteche sarà un problema sempre più difficile da risolvere in un'epoca in cui il rimpicciolimento generale delle cose e degli uomini colpisce tutto, perfino le abitazioni. A Parigi, i grandi palazzi, i grandi appartamenti saranno presto o tardi demoliti; fra poco non ci saranno più ricchezze proporzionate alle costruzioni dei nostri padri. Che vergogna per la nostra epoca fabbricare libri che non durano! Ancora dieci anni, e sarà assolutamente impossibile fabbricare carta di Olanda, vale a dire carta fatta con stracci di filo. Ora, il vostro generoso fratello mi ha comunicato l'idea, che era venuta a vostro padre, di usare certe piante fibrose per la fabbricazione della carta; vedete bene che se riesco avrete diritto a...» In quel momento Luciano si avvicinò alla sorella e interruppe la generosa proposta di Davide. «Non so,» disse, «se voi avete trovato bella questa serata, per me è stata crudele.» «Mio povero Luciano, che ti è successo?» chiese Eva, notando l'agitazione che era dipinta sul volto del fratello. Il poeta, irritato, raccontò le sue angosce, riversando in quei cuori amici il tumulto di pensieri che lo assillava. Eva e Davide ascoltarono Luciano in silenzio, afflitti di veder passare quel torrente di pene nel quale si mescolavano grandezze e meschinità. «Il signor de Bargeton,» disse Luciano terminando,» è un vecchio che se ne andrà senza dubbio fra breve, in seguito a un'indigestione. Ebbene! io dominerò questo mondo orgoglioso, sposerò la signora de Bargeton! Questa sera ho letto nei suoi occhi un amore uguale al mio. Sì, anche lei ha sentito le mie ferite; ha lenito le mie sofferenze; ella è grande e nobile quanto è bella e generosa! No, non mi tradirà mai !» «Non è forse venuto il momento di procurargli un'esistenza tranquilla?» disse a bassa voce Davide a Eva. Eva strinse in silenzio il braccio di Davide e questi, indovinando il suo pensiero, si affrettò a raccontare a Luciano i progetti che aveva concepito. I due innamorati erano preoccupati di se stessi, quanto Luciano era preoccupato di sé; così Eva e Davide, tutti presi dal desiderio di ottenere un consenso alla loro felicità, non si accorsero del gesto di sorpresa che sfuggì all'amante della signora de Bargeton nell'apprendere il matrimonio della sorella e di Davide. Luciano, che pensava di far fare a sua sorella un bel matrimonio quando egli avesse raggiunto una posizione elevata, in modo da poter sostenere le sue ambizioni con l'alleanza di una famiglia potente, rimase desolato nel vedere in quella unione un ostacolo di più ai suoi successi nel gran mondo. «Se la signora de Bargeton acconsente a diventare la signora de Rubempré, non vorrà mai essere la cognata di Davide Séchard.» Questa frase esprime in modo netto e preciso i pensieri che attanagliarono il cuore di Luciano. «Luisa ha ragione! Le persone che hanno un avvenire non sono mai comprese dai loro familiari,» pensò con amarezza. Quel matrimonio lo avrebbe senza dubbio colmato di gioia vivissima, se gli fosse stato prospettato in un momento diverso da quello in cui egli aveva già fatto morire con la fantasia il signor de Bargeton. Riflettendo sulla sua situazione presente e sul destino di una ragazza bella e senza dote, Eva Chardon, avrebbe considerato quel matrimonio come una fortuna insperata. Ma in quel momento egli stava facendo uno di quei sogni dorati in cui i giovani, a cavallo dei se, superano ogni ostacolo. Dopo essersi visto nei panni di dominatore della società, il poeta soffriva di dover ripiombare così presto nella realtà. Eva e Davide pensarono che il loro fratello tacesse, confuso per tanta generosità. Per quelle due belle anime una accettazione silenziosa dimostrava una vera amicizia. Lo stampatore si mise a descrivere, con una eloquenza dolce e cordiale, la felicità che li attendeva tutti e quattro. Malgrado le esclamazioni di Eva, arredò il primo piano della casa con il lusso di un innamorato; sistemò con ingenua buona fede il secondo per Luciano e le stanze al di sopra della tettoia per la signora Chardon, alla quale voleva dimostrare tutte le attenzioni di una sollecitudine filiale. Insomma rese la sua famiglia così felice e suo fratello così indipendente che Luciano, trascinato dalla voce di Davide e dalle espansioni di Eva, dimenticò, sotto gli alberi frondosi della strada, lungo la Charente calma e luccicante, sotto la volta stellata e nella tiepida atmosfera della notte, la pungente corona di spine che la società gli aveva messo sul capo. Il signor de Rubempré finì così per accettare Davide. La mobilità del suo carattere lo riportò ben presto alla vita pura, laboriosa e borghese che aveva condotto sin lì; una vita serena e senza affanni. Le pompe del mondo aristocratico dileguarono sempre più dalla sua mente. Alla fine, quando giunse sul selciato dell'Houmeau, l'ambizioso strinse la mano del fratello e il suo animo si mise all'unisono con quello degli innamorati felici. «Purché tuo padre non si opponga al matrimonio,» disse a Davide. «Figurati se si preoccupa di me! Il brav'uomo vive solo per se stesso; ma domani andrò a trovarlo a Marsac, non fosse altro che per ottenere da lui che faccia fare i lavori di cui abbiamo bisogno.» Davide accompagnò a casa il fratello e la sorella e chiese alla signora Chardon la mano di Eva con la premura di chi non vuole frapporre indugi. La madre prese la mano della figlia, la mise con gioia in quella di Davide e l'innamorato, fattosi ardito, baciò sulla fronte la sua bella promessa, che gli sorrise arrossendo. «Ecco i contratti nuziali dei poveri,» disse la madre alzando gli occhi come per implorare la benedizione di Dio. «Voi avete coraggio, ragazzo mio,» disse a Davide, «perché noi siamo perseguitati dalla sfortuna e non vorrei che ciò fosse contagioso.» «Saremo ricchi e felici,» disse gravemente Davide. «Tanto per cominciare, voi non farete più l'infermiera e verrete ad abitare con vostra figlia e Luciano ad Angoulême.» I tre giovani si affrettarono a raccontare alla madre sbalordita il loro meraviglioso progetto, abbandonandosi a una di quelle assurde chiacchierate in famiglia, nelle quali si fanno mille castelli in aria, si assaporano in anticipo tutte le gioie. Bisognò mettere Davide alla porta; egli avrebbe voluto che quella serata fosse eterna. Suonava l'una di mattina quando Luciano riaccompagnò il futuro cognato fino alla porta Palet. Il bravo Postel, preoccupato da tutto quel movimento, era in piedi dietro una persiana; aveva aperto la finestra e si chiedeva, scorgendo la luce a quell'ora in casa di Eva: «Ma che cosa succede dagli Chardon?» «Ragazzo mio,» disse vedendo tornare Luciano, «che vi succede dunque? Avete bisogno di me?» «No, signore,» rispose il poeta; a ma siccome siete nostro amico posso dirvi di che si tratta: mia madre ha accordato la mano di mia sorella a Davide Séchard.» Per tutta risposta, Postel chiuse bruscamente la finestra, disperato per non aver chiesto prima in moglie la signorina Chardon. Invece di rientrare a Angoulême, Davide prese la strada di Marsac. Si avviò con calma e raggiunse l'orto attiguo alla casa di suo padre nel momento in cui il sole si levava. L'innamorato vide sotto un mandorlo la testa del vecchio Orso che spuntava da dietro una siepe. «Buon giorno, padre mio,» gli disse Davide. «Sei tu, ragazzo mio? Come mai ti trovi per strada a quest'ora? Passa per di là,» disse il vignaiolo indicando al figlio una porticina a giorno. «Le mie viti hanno fiorito tutte, nemmeno una pianta gelata! Saranno più di venti botti a iugero quest'anno; il fatto è che è ben concimato!» «Padre mio, sono venuto per parlarvi di un affare importante.» «Ebbene, come vanno i nostri torchi? Devi guadagnare di bei soldi tu, no?» «Ne guadagnerò, padre mio, ma per il momento non sono ricco.» «Tutti qui mi rimproverano di concimare troppo,» rispose il padre. «I borghesi, vale a dire il signor marchese, il signor conte, il signor qui e il signor là, dicono che faccio scadere la qualità del vino. A che serve l'educazione? A imbrogliarvi le idee. Ascolta! Questi signori ricavano sette, qualche volta otto botti a iugero e le vendono a sessanta franchi la botte, il che fa tutt'al più quattrocento franchi a iugero nelle annate buone. Io ne ricavo venti botti e le vendo a trenta franchi, totale seicento franchi! Chi è più sciocco? La qualità! la qualità! Che me ne importa della qualità? che se la tengano per loro la qualità, i signori marchesi! per me, la qualità sono gli scudi. Stavi dicendo?...» «Io mi sposo, padre mio, e sono venuto a chiedervi...» «A chiedermi? Che cosa? Niente, ragazzo mio. Sposati, io acconsento; ma se vuoi qualche cosa mi spiace di dirti che sono senza un soldo. I lavori qui mi hanno rovinato! Da due anni sono in arretrato con i pagamenti, le imposte e le spese di ogni genere; il governo si prende tutto, il meglio va al governo! Sono due anni che i poveri vignaioli non fanno niente. Questa annata si presenta discreta; ebbene, le botti costano già undici franchi! Lavoreremo per il bottaio. Perché sposarti prima della vendemmia...» «Padre mio, vengo a chiedervi solo il vostro consenso.» «Ah, allora è un'altra faccenda. E non per sapere i fatti tuoi, con chi ti sposi?» «Sposo la signorina Eva Chardon.» «E chi è? che cosa mangia?» «È la figlia del fu signor Chardon, il farmacista dell'Houmeau.» «Tu sposi una ragazza dell'Houmeau, tu, un borghese! Tu, stampatore del re a Angoulême! Ecco i frutti dell'educazione! Mettete i figli in collegio! Ma allora deve essere molto ricca, ragazzo mio!» disse il vecchio vignaiolo avvicinandosi al figlio con aria maliziosa; «perché se sposi una ragazza dell'Houmeau, deve averne parecchi di quattrini! Bene! vuol dire che mi pagherai gli affitti. Lo sai, ragazzo mio, che ci sono già due anni e tre mesi di affitti scaduti, il che fa duemilasettecento franchi che mi arriverebbero proprio a puntino per pagare il bottaio? A chiunque altro che non fosse mio figlio avrei il diritto di chiedere gli interessi; perché dopo tutto gli affari sono affari; ma te li abbuono. E allora, quanto ti porta di dote?» «Ha quello che aveva mia madre.» Il vecchio vignaiolo stava per dire: «Non ha che diecimila franchi!» ma si ricordò di non aver voluto rendere i conti al figlio ed esclamò: «Non ha niente!» «La dote di mia madre era la sua intelligenza e la sua bellezza.» "Vacci a fare la spesa, e vedrai che cosa ti daranno! Corpo di una pipa, come sono sfortunati i padri con i loro figli! Quando io mi sono sposato, Davide, avevo in testa un berretto di carta per tutta ricchezza e le mie due braccia, ero un povero Orso. Ma con la bella stamperia che io ti ho dato, col tuo mestiere e le tue conoscenze devi sposare una borghese di città, una donna che abbia dai trenta ai quarantamila franchi. Lascia perdere l'amore, penserò io a sposarti! A una lega di qui c'è una vedova di trentadue anni, mugnaia, che ha centomila franchi di terre al sole; ecco quello che fa per te. Potrai riunire i suoi poderi a quelli di Marsac, sono confinanti! Ah, la bella proprietà che avremo, e come saprò amministrarla! Dicono che finirà per sposare Gourtois, il suo primo garzone, ma tu vali più di lui! Io manderò avanti il mulino mentre lei farà la bella vita ad Angoulême.» «Padre mio, mi sono impegnato..." «Davide, tu non capisci niente di affari, ti rovinerai. Sì, se ti sposi con questa ragazza dell'Houmeau, bisognerà che io metta in chiaro le cose con te, che esiga il pagamento dei miei affitti, perché non prevedo niente di buono. Ah, i miei poveri torchi! i miei torchi! Ci voleva del denaro per oliarvi, per mantenervi, per farvi funzionare. Solo una buona annata potrà consolarmi di ciò.» «Padre mio, mi sembra che fino ad ora vi abbia dato poche preoccupazioni...» «E poche pigioni,» rispose il vignaiolo. «Venivo a chiedervi, oltre al consenso al mio matrimonio, di farmi rialzare il secondo piano della vostra casa e di costruire un alloggio sopra la tettoia.» «Non t'illudere, non ho un soldo e lo sai bene. E poi, sarebbe denaro buttato via; che cosa mi frutterebbe? Ah! tu ti alzi la mattina per venirmi a chiedere di fare dei lavori che rovinerebbero un re. Anche se ti hanno battezzato Davide, io non ho i tesori di Salomone. Ma sei pazzo? M'hanno cambiato il figlio a balia. Eccone uno che darà molta uva!» disse interrompendosi per mostrare a Davide un ceppo. «Questi sono figli che non deludono le speranze dei genitori: voi li concimate e loro vi danno i frutti. Io t'ho mandato al liceo, ho speso somme enormi per fare di te un uomo istruito, sei andato a studiare dai Didot, e tutto questo è servito solo a darmi per nuora una ragazza dell'Houmeau senza un soldo di dote! Se tu non avessi studiato e fossi rimasto sotto i miei occhi, ti saresti comportato come dico io, e oggi ti sposeresti con una mugnaia che vale centomila franchi senza contare il mulino. A questo ti serve la tua intelligenza, a farti credere che io ricompenserò questi bei sentimenti facendoti costruire dei palazzi?... Si direbbe che da duecento anni la casa in cui ti trovi non abbia ospitato che dei porci e che la tua ragazza dell'Houmeau non possa dormirvi. Ma chi è, la regina di Francia?» «Ebbene, padre mio, costruirò il secondo piano a spese mie, vorrà dire che sarà il figlio che arricchirà il padre. È il mondo alla rovescia, ma qualche volta queste cose si vedono.» «Ma come, ragazzo mio, hai i soldi per costruire e non li hai per pagarmi gli affitti? Furbone, tu inganni tuo padre!» La questione posta così diventò difficile da risolvere, perché il brav'uomo era felice di mettere il figlio in una posizione che gli permettesse di non dargli niente pur dimostrandosi paterno. In conclusione Davide non poté ottenere dal padre che un consenso puro e semplice al matrimonio e il permesso di fare a sue spese, nella casa paterna, tutti i lavori di cui poteva avere bisogno. Il vecchio Orso, quel modello di padre conservatore, fece al figlio la grazia di non esigere gli affitti e di non prendergli le economie che quest'ultimo aveva avuto l'imprudenza di lasciargli intravedere. Davide tornò ad Angoulême tutto triste: comprese che nel bisogno non poteva contare sull'aiuto del padre. 2b1af7f3a8